C’è stata quella sera dove il vento, salìto all’improvviso, spazzava gli alberi e si scontrava contro la mia gola scoperta e i miei pensieri altrettanto inermi, di sbieco, su quel sofà di pelle fuori da un ristorante di tapas in una città che non c’entrava nulla con la Spagna. C’era quiete, nonostante tutto, e c’era perfezione in quel movimento caotico, negli sguardi e nelle parole sempre più molli di stanchezza, di vino e di una lingua che non era la mia e nemmeno la tua. C’era armonia in quelle parole, come in tutto quello che avevamo intorno.
Torniamo in auto verso il mare, dove il caso ha voluto fossimo contemporaneamente ma separatamente sistemati. Io di passaggio, tu più stabilmente, ma nemmeno troppo.
– Da lì si va a casa tua, da qui a casa mia – mi hai detto.
– Andiamo a casa tua.
– A casa mia è un casino.
– Io non ho nemmeno una vera casa.
– Allora?
– Davvero vuoi che torni a casa così?
– No.
La mattina dopo mi hai portato in giardino un cappuccino, prima di andare a lavoro. Io non bevo cappuccino, anche se sono italiano; il latte mi uccide, ma l’ho bevuto ugualmente. Poi, mentre ero seduto al bar, ho pensato alla felicità. La felicità è una cosa composta da tante piccole cose – mi son detto – dove tutte le piccole cose di cui è composta funzionano bene. La felicità è un posto dove se sbagli qualcosa non importa: una parola, una strada, un cappuccino. La felicità è come una macchina perfetta, che auto-apprende, che si cura da sola, un sistema che è difficile influenzare, che non puoi rompere ma neanche aggiustare. Poi ho pensato all’amore, che per me è la conseguenza tangibile della felicità. Essere innamorati significa sentire sul proprio corpo la consapevolezza di far parte di questa macchina, delle sue connessioni con il mondo. Ho capito che l’amore è una cosa che non c’entra nulla con le persone che amano. L’amore è un’altra roba che funziona e basta, tu ti ci trovi in mezzo e non puoi farci niente.