(Posizione)
Mi chiese cosa avessi lì, poggiandomi la mano sul fianco sinistro, poco sopra la cresta iliaca.
(Cause)
Le risposi che non era niente ma lei, incuriosita, accese la piccola lampada sul comodino.
S’era fatto scuro da poco in quella estate lenta, e ci eravamo afflosciati sul letto lasciando che il cielo imbrunisse pigramente alla finestra. Era la prima volta che stavamo insieme e non avevo intenzione di turbare la quiete del momento rispondendo a quella domanda inaspettata. La storia violenta che aveva segnato quella porzione del mio corpo non pareva adatta alla situazione, soprattutto perché c’era lei, un’ex fricchettona sorridente e morbida, ancora con la cavigliera indiana e i sandali.
Lei, incurante della mia reticenza, proseguì l’ispezione di quella parte anatomica con cura, toccando e continuando a chiedere quale fosse l’origine di quel taglio. Io, intanto, cercavo di prendere tempo poggiando le mie dita sopra le sue, spostandole su zone di pelle meno accidentate, come a volerla preservare da un possibile contagio. Nonostante questo mio tentativo, il suo sguardo indugiava. Per togliermi dall’imbarazzo di quella indagine, mi voltai sul fianco, tentando di nasconderle il danno.
Quel movimento, che nelle mie intenzioni doveva essere un diversivo, aumentò invece la sua curiosità, quasi come se quell’escrescenza fosse una specie di palla di cristallo, un oracolo in grado di svelare tutto il nostro tempo a venire, se mai ce ne fosse stato. Cedetti a quell’insistenza confessandole che era stata la punta di un coltello a sfregiarmi.
Dopo quella inaspettata rivelazione, mise sul volto un’espressione di dispiacere e sdegno, forse per sottolineare la puerilità del caso. Immaginavo trovasse riprovevole e stupido chi si lasciasse coinvolgere in quel genere di affari, qualunque essi fossero. Sentivo il peso di quel giudizio calare tra le nostre teste vicine. Furono però i suoi modi timidi e gentili a far durare il mio imbarazzo giusto il tempo di provare a tirar fuori una giustificazione. Le dissi che quel taglio me lo ero procurato per difendere un’amica, quasi come se impastare le parole con un’atmosfera da romanzo d’appendice potesse togliermi la puzza di guappo che mi ero messo addosso. Dal suo sospiro capii che quella mossa non aveva intaccato per nulla il suo giudizio, anzi, sentivo appesantirsi il lieve sconforto che leggevo nel suo sguardo. Le raccontai della ragazza, delle coincidenze di tempi e luoghi che ci fecero incontrare, del pomeriggio passato nella città vecchia, della cena tra i vicoli dietro al porto, del vino bianco, fresco e traditore, delle parole di troppo che spesso volano tra i tavoli da sparecchiare, di quella lama tirata fuori senza senso e usata allo stesso modo. Le dissi anche che non ebbi paura, non ce ne fu il tempo. In cambio di quel coraggio prestatomi dal caso, ora potevo vantare una storia romantica e una ferita di guerra.
Lei continuava nel suo silenzio. Io mi convinsi che fosse a causa della pietà che provava nei miei confronti, del tipo di quella che si può sentire per i bambini che rovesciano una pentola d’acqua bollente marchiandosi a vita per eccesso di curiosità e di slancio verso il mondo. In verità, sapevo che quelle labbra serrate erano il frutto di una inconsapevole gelosia.
Tra i nostri corpi era comparsa una stagione passata che assomigliava molto a quella che stavamo vivendo insieme e con essa fu vivo il timore che sarebbe finita ugualmente, con il racconto d’asporto di una storia in cui i figuranti si sarebbero divisi poco dopo e almeno uno dei due avrebbe portato con sé una ferita.
(Conseguenze)
Dopo quel pomeriggio passato insieme ce ne furono altri. Le giornate scorrevano in un crescendo molle di ore comuni, dove ognuno cercava di aggiustare la propria vita sui tempi altrui. Si facevano progetti di indifferente casualità per far precipitare il lavoro e l’abitudine ai margini di quel pasticcio di novità che è l’amore alle prime armi. Vennero poi altre stagioni ed altre estati da passare insieme. Non ci fu più la necessità di imbastire racconti su quel taglio, né ci fu l’occorrenza penosa di posare ancora le mani su ferite di cui non si conoscesse reciprocamente l’origine e il decorso.
Poi, come spesso accade, le stagioni finirono, perse dietro l’incapacità di trovare altri racconti che riempissero le porzioni d’aria tra le nostre bocche ormai chiuse. Finì quell’insistenza di mani che sfioravano la pelle, forse per troppa conoscenza, e furono sempre meno le parole dette per scavare la luce fioca del tardo pomeriggio. Si perse anche quello sguardo che imbarazza senza giudicare.
Appresi così che gli amori si chiudono spesso con il desiderio impossibile di mostrare cento vecchie ferite di cui poter raccontare la storia inventata, perché ogni cicatrice è solo pelle tesa a unire due vite che respirano vicine.
(immagine originale, qui)