Don Antò, voi lo sapete, io non so fare molto, il mestiere mio è la musica, quella capisco. L’ho imparata da mio nonno, primo clarino al teatro San Carlo. Voi siete un poeta, invece, uno che ha studiato e ci sa fare con le parole. Siamo due che nella guerra possiamo combinare poco, se non nulla. Io tengo paura pure del vento leggero che scende alla sera da Capodimonte, figuriamoci di quest’aria insopportabile mischiata di piombo, polvere e fuoco. Da soli non possiamo fare niente in questa confusione, al massimo comporre una marcetta. Non ridete Don Antonio, sto parlando seriamente. Pure una canzone può aiutare a fare la guerra a chi altro non tiene.
“Femmine, voi che tenete uomini, nascondeteli” è stata l’ultima voce gridata dai bassi, a rimbalzo di balcone in balcone. I tedeschi cercano gli abili alla guerra per portarli nei campi di lavoro in Germania. I gentiluomini come noi sono finiti sotto l’asfalto, nelle cantine come i topi e le donne sono rimaste sopra, a fare la guardia, a cercare un poco da mangiare per sfamare figli, mariti e fratelli. Che tempi sono questi, Don Antò? Qua sotto, nelle viscere del sottosuolo, stiamo come i morti sepolti di fresco, in attesa di un segno dall’alto, di un fiore, di una preghiera, di un pianto. A Napoli è sempre stato il contrario. Gli uomini chiedevano ai santi e i santi regalavano benedizioni, soldi e salute. La guerra scambia il buio con la luce, il sopra con il sotto, i vivi coi morti e pure i maschi con le femmine. Anche il suono della guerra è tutto un confondersi, Don Antò. Il rombo delle bombe tedesche si intreccia con l’artiglieria alleata, il respiro trattenuto di un uomo che ha paura e si nasconde si allarga vicino a quello di chi ha la mano armata e attende il tempo giusto per l’agguato, lo sbattere dei piedi di chi scappa si incrocia con quello di chi corre incontro ai blindati.
Don Antò, ora si sente la città che inizia a mormorare, come fa il mare quando il Vesuvio si scalda. È il rumore cupo del popolo che si alza, un grosso di bocche che incitano prima in silenzio per poi salire di tono, uno sbalzo di pressione che fa tremare la carne più dei colpi di cannone e che rimbomba sotto le case e si alza potente, a smuovere i corpi e le coscienze di tutti a venir fuori dai nascondigli. Adesso, questo subbuglio, questo movimento che nasce dalla confusione, si sta trasformando in canto, in opera lirica con orchestra d’archi, ottoni e tamburi, con il coro della gente che per una volta s’è intonato con le voci soliste, tutte che vogliono farsi sentire perché è da troppo tempo che se ne stanno schiacciate nello stomaco. Don Antò, la gente si è armata e fa le barricate in strada, le milizie fasciste son sparite, a via Foria ci sono i tram di traverso, al Vomero tagliano i platani per bloccare i carri armati, gli studenti assaltano le caserme e si organizzano all’Università, ai Quartieri piove mobilia sulle colonne naziste come se fosse l’ultimo dell’anno e gli alleati sono alle porte. Il popolo si è rivoltato, Don Antonio, e noi abbiamo una grossa responsabilità, che è quella di dare una direzione a questo furore trovando l’accompagnamento giusto per vincere ’sta maledetta guerra. Badate, Don Antò, non è cosa da poco dare il ritmo all’incedere delle armi, soprattutto quando non c’è un esercito disciplinato a portarle ma un popolo stanco e arrabbiato riunito in rivolta. Ci sta una musica che mi piace assai, con un ritmo solenne ma non triste, robusto nella struttura ritmica ma anche leggero, che si muove come le onde del mare quando si avvicinano alla spiaggia.
Le parole sono straniere e non le capisco, francesi forse, e suonano così: “Alle sanfan de la patrì le giur de glorie è arrivè”. Dice che ci stanno pure i francesi con gli americani che sono sbarcati a Salerno. Voi lo conoscete il francese, Don Antò? Trovate carta e penna, saranno i vostri strumenti di battaglia, mentre il mio sarà la fisarmonica. Mettete su questi accordi le vostre rime, fatele facili da ricordare, in italiano, anzi no, in napoletano, così tutti le possono capire e cantare. Devono essere parole che mettono coraggio a chi non ce l’ha e che lo fanno venire doppio a chi ha già il cuore forte, roba da far scetare pure i morti come noi, Don Antò. Ora pigliamo in prestito questa musica che quando i tedeschi se ne vanno e arrivano i francesi gliela restituiamo più bella di come ce l’hanno data e magari ci fanno pure l’applauso, ché certe volte la carta della musica e il suono della bilancia valgono più del pesce che incartano*.
Perugia, 15 Marzo 2011
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* Me stai dann’ tutta carta e musica e suone e valenza si riferisce all’usanza per cui i pescivendoli incartavano la merce con spartiti musicali, fatti di carta spessa e pesante e per cui i compratori lamentavano inganni sul prezzo.
___Ho preso in prestito l’ispirazione e il colore della lingua di questa narrazione dalle pagine de Il giorno prima della felicità, di Erri De Luca. L’opera racconta, tra le altre cose, la resistenza del popolo napoletano alla scellerata e crudele occupazione nazista durante le quattro giornate di Napoli (27-30 settembre 1943) che portarono alla liberazione della città e all’ingresso trionfale delle truppe alleate. Altro ho rubacchiato al film di Nanni Loy,_ Le quattro giornate di Napoli.
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Questo racconto fa parte della raccolta Schegge di Liberazione, un ebook sulla Resistenza collaborativo e gratuito, pubblicato online e anche realizzato in versione cartacea. Potete trovarlo qui.