Sogno la sveglia che suona. Sogno che mi sveglio. Ho ancora qualche minuto, mi riaddormento, tanto è un sogno. A chi non è mai capitato almeno una volta? Mi risveglio di soprassalto (oddio, soprassalto) consapevole che la sveglia ha suonato per davvero. Un classico. Guardo l’orario e sono in ritardo spaventoso per il lavoro. Bestemmio e mi rassegno contemporaneamente all’evidenza ma intimamente me ne fotto. Esco sconsolato dalle coperte, stanco, eppure ieri sera non ho fatto particolarmente tardi, sarà che non ho metabolizzato ancora il cambio d’ora. Sarà quello, mi dico.
Mi dirigo verso la macchinetta del caffè, la metto a scaldare e intanto tengo d’occhio l’orologio a muro, accorgendomi che non ho guadagnato tempo, anzi. Nel frattempo guardo fuori dalla finestra e mi chiedo, ancora instupidito, come è che sia ancora così buio. Bah, mi rispondo, sarà sempre quella cosa del cambio d’ora. Fa un insolito freddo.
Accendo la tivù. Corradino Mineo è lì, come sempre, o quasi, a parlare della guerra in Libia, con il suo fare simpatico e i suoi occhialetti che si dividono in mezzo e poi si riattaccano alla bisogna. Mi piace, mi rassicura. Non ho messo in carica l’iPhone. Controllo il livello della batteria, quarantacinque percento, non male, sono soddisfatto, ci giochicchio un po’, in barba al ritardo. Tanto, ormai.
Nel frattempo vengono fuori i toast dal mio splendido tostapane che stampa, quasi a rilievo, un teschio bruciacchiato sulla superficie del pane integrale del Mulino Bianco. Un segno di quotidiana e pacata ribellione al sistema. Alla vista dell’opera d’arte mi emoziono come un bambino di fronte alla vasca dei pinguini del bioparco e scatto una foto che metto su Instagram. Tanto, ormai. Mentre imburro le fette ancora calde, con la coda dell’occhio seguo le impietose lancette dell’orologio, non ho guadagnato tempo, anzi. Corradino Mineo parla degli sbarchi a Lampedusa.
Dopo il caffè vado in bagno, con la solita sacralità e anzi, in balìa di una lettura anarchica dei miei doveri civici di lavoratore, per regalarmi ancora maggior gratificazione, in barba allo scandaloso ritardo, porto con me l’aggeggio elettronico multimediale per vedere se qualcuno ha messo un like sulla foto del pane tostato. Nessuno.
Dopo le abluzioni di rito preparo il borsone per la palestra e penso ai vestiti da indossare cercando di interpretare la temperatura esterna e le sue possibili evoluzioni. Ho tutto a portata di mano sullo stendi panni e tutto è pulito e profuma di sapone di Marsiglia. La cosa mi mette quasi di buon umore. I movimenti per la vestizione sono ormai collaudati e ridotti al minimo indispensabile. All’ultimo inforco il portafogli, gli spicci per il caffè alla macchinetta dell’ufficio, l’orologio da polso (guardo l’ora, sempre più indifferente al ritardo). Ho dimenticato le caramelle, maledizione.
Scendo in strada e l’aria è particolarmente rigida. Strano, mi dico. Le auto sono coperte di brina, ma il sole sta salendo e sarà una bella giornata. Non mi preoccupo. Salgo sulla mia macchina e l’orologio al quarzo mi regala, mosso quasi da umana pietà, una speranza inattesa di non essere in drammatico ritardo. Ricordo dopo poco che ho dimenticato di aggiornarlo all’ora legale. Ritorno così a sprofondare in una finta angoscia da buon cittadino.
Il traffico è regolare, se non fosse per un eccesso di genitori che accompagnano i loro pargoli a scuola, ma non ci faccio caso, non intralciano più del dovuto e poi, tanto, ormai. Trovo parcheggio sulla solita via, quasi a metà della salita. Poteva andare meglio ma anche peggio. Mi avvio per la solita strada che ormai non regala più particolari emozioni. Prendo il solito saccostino glassato farcito al cacao che la fornaia mi tiene da parte, con ammirevole dedizione, ogni mattina. Grazie, ciao. Il ciao è di quelli con la “o” lunga che denota ormai una certa intimità. Neanche guardo l’ora salendo con l’ascensore. Tanto, ormai. Suono il campanello per farmi aprire, nessuno risponde. Sfodero le chiavi, apro la porta blindata dell’ufficio, timbro il cartellino (e già, il cartellino). Non c’è nessuno. Strano, dico. Accendo il pc e cazzo, l’illuminazione. Sono in anticipo di un’ora. Vabe’, comunque in ritardo sull’anticipo di un’ora. L’abitudine.