Fabbrica. Il posto lì me lo ha lasciato mio padre. Non so come abbia fatto, forse qualche impiccio sulla liquidazione prima di andare in pensione e poi morire, l’anno dopo. Fabbrica. Capannoni desolanti e sterminati che gocciano olio scuro. Tubi e bulloni che si aprono, si spezzano e saltano un giorno sì e l’altro pure. Ruggine e pulviscolo ferroso nell’aria e puzza, ovunque. Ingegneri giapponesi vengono in visita con il loro camice bianco, sciamano e annuiscono compiaciuti all’assaggio dell’acciaio speciale, il migliore del mondo. La Linea A e l’altoforno sono tirati a lucido per l’occasione. La visita dei giapponesi è come quando arriva in città il Presidente o il Papa. Si mette a nuovo quel tratto lì, quello di passaggio, e per il resto si rattoppa qualche buco qua e là e si nasconde la polvere sotto il tappeto, come nei cartoni animati di Tom e Jerry.
Da bambino, avrò avuto quattro anni, mi svegliavo all’alba, al salire dell’odore di caffè dalla cucina; saltavo giù dal letto come una furia non appena sentivo smettere lo struscio del rasoio nell’acqua del lavandino. Quello era il segnale che mio padre stava uscendo di casa per andare a lavoro. Il turno attaccava alle sette ma c’erano parecchi chilometri da fare, in corriera o in auto.
Quanto fanno centoventi chilometri al giorno per trentacinque anni?
Io, da bambino, mi alzavo tutte le mattine all’alba, per andare a lavoro con mio padre, in fabbrica. Sbattevo forte i piedi scalzi per terra e piangevo e pregavo e imploravo che mi portasse con lui. “Oggi no”, mi diceva mio padre, “vediamo domani”, e mi lasciava scalpitante nelle braccia di mamma che mi teneva a forza. Io, mio padre, non lo vedevo quasi mai e pensavo che l’unico modo che avessi per stare un po’insieme a lui fosse andare lì, in fabbrica, a raccogliere olio, stringere bulloni e prendere per il culo giapponesi.
Io, quella fabbrica, l’amavo e la odiavo. Mi chiedevo sempre quanto bello potesse essere quel posto. Quanto bello doveva essere quel posto lì per tenere mio padre tutto il giorno via da me?
Immaginavo labirinti luccicanti di tubi, lo splendore intermittente dei pulsanti sulle macchine possenti, il bagliore e il calore dell’acciaio fuso che colava dritto e lento come lava da un vulcano. Immaginavo giapponesi col camice bianco e il casco giallo in testa e gli occhiali spessi che sorridevano compiaciuti del sapore del loro acciaio speciale. Ma speciale per farci cosa?
L’amore per la fabbrica, poi, saliva a dismisura a Natale. Il babbo natale della fabbrica, come lo chiamavo io, diceva ad ogni bambino quello che avrebbe ricevuto in regalo. Il babbo natale della fabbrica, così lo chiamavo, faceva sempre regali bellissimi. Non c’era neanche bisogno di chiedere, di scrivere lettere. Il babbo natale della fabbrica sapeva benissimo quello che desideravo, lo sapeva anche meglio di me, ed erano sempre regali bellissimi. I regali che mi portava il babbo natale della fabbrica erano cose bellissime che forse il desiderio di un bambino neanche riusciva bene a desiderare per quanto fossero belle.
Ricordo, un anno, l’aereo radiocomandato; un Tornado. Quell’aereo era bellissimo nel suo grigio metallizzato, con le ali stellate dell’aviazione americana che si aprivano e chiudevano perfette, con la luce rossa lampeggiante nella cabina di pilotaggio e la punta affusolata a fendere l’aria della mia stanza. Ancora più bello, se mai possibile, il regalo del Natale successivo. Un robot giapponese gigantesco. Ancora mi chiedo, a distanza di anni, come facesse il babbo natale della fabbrica a sapere perfettamente quello che ogni bambino desiderasse ricevere in regalo. Magari, pensavo, erano stati i giapponesi a dire al babbo natale della fabbrica che in Giappone tutti i bambini desideravano un robot giapponese e allora, per non far torto ai giapponesi, che erano buoni clienti, pareva ovvio che anche i bambini italiani desiderassero un robot giapponese (iniziavo anche a capire cosa ci potessero fare i giapponesi con l’acciaio speciale della fabbrica di mio padre).
Con il robot giapponese gigantesco ci facevo le battaglie contro il Tornado. Se fino allora l’aereo aveva avuto vita facile contro le truppe di soldatini ammassati sul pavimento e sui mobili, le cose cambiarono in fretta. Tra il Tornado e il robot giapponese gigantesco era facile che vincesse il robot giapponese gigantesco, ma la cosa non era poi così scontata. La vittoria doveva sudarsela, comunque, al prezzo di ammaccature sulla corazza, arti divelti, armamenti dispersi sotto il letto.
Un giorno, ricordo, vidi in tivù che scoppiò una guerra vera, o almeno così mi sembrava. Era la prima guerra vera che vedevo in tivù e quindi non sapevo bene. C’erano i soldati, i carri armati, le navi, gli aerei e gli elicotteri. Sembrava proprio una guerra vera. Gli aerei decollavano da un paese non distante dal mio per andare a combattere aldilà del mare. Io, non so, ero solo un bambino, ero contento perché vedevo decollare quegli aerei che erano dei Tornado. I più veloci e potenti del mondo, dicevano alla tivù. Io ero solo un bambino ed ero contento perché sapevo tutto di quegli aerei, di come si pilotavano, di come fossero equipaggiati, del fatto che con i Tornado è facile vincere contro i soldati ammassati sul pavimento. Un altro giorno, sempre in tivù, vidi che due di quegli aerei erano stati abbattuti e i piloti catturati e le cose si mettevano male e che poi, questi Tornado, per quanto veloci e potenti, non fossero poi così invincibili. Io, allora, da quel momento, non volli più staccarmi dalla tivù perché non vedevo l’ora di vedere partire, prima o poi, un robot giapponese gigantesco ché con i robot giapponesi giganteschi, lo sanno tutti, ci fai delle battaglie incredibili e prova a tirarlo giù un robot giapponese gigantesco, se ci riesci.
Ora, che non sono più tanto ragazzino, mi alzo tutte le mattine all’alba, per andare a lavoro in fabbrica. Come allora, l’odore del caffè impregna la cucina e il corridoio. Uguale resta il rumore dello struscio del rasoio nell’acqua del lavandino. Giapponesi da prendere per il culo, in fabbrica, non se ne vedono da tempo e la polvere sotto i tappeti è ovunque, non solo sotto i tappeti.
Il babbo natale della fabbrica è da anni che non si fa vivo. Di aerei e robot neanche l’ombra.
Come quando ero bambino, salto giù dal letto, all’alba, con meno furia, certo, ma sbatto sempre i piedi scalzi per terra e piango e grido e imploro di poter andare a lavoro, al mio lavoro, ancora, come quando c’era mio padre.
Oggi no, magari domani, mi ripeto da solo.
(foro originale qui)
***
Questo lodevole, a mio avviso, manufatto dell’ingegno letterario, partecipa ad un altrettanto lodevole manufatto che chiamerei di “editoria digitale dal basso e partecipata” che questo signore qui, ormai da anni, tra mille vicissitudini umane e tecnologiche, riesce, nonostante tutto, a regalarci. Si chiama PSlA, terribile acronimo che sta per “Post Sotto l’Albero”.
Volendo, potete scaricarlo qui.
Grazie Sir, di cuore, di tutto.