Il sole è netto, tondo e preciso e sta a tre quarti di cielo sopra la valle. E’ il primo sole dopo settimane di pioggia e nuvole scure che ci hanno costretto dietro le finestre. L’ombra della vecchia abazia scurisce la mezza collina sottostante. Siamo decisi a goderci questo caldo inaspettato senza risparmiarci. Le scarpe sbagliate e i pantaloni lunghi e scuri ci danno impiccio. Abbiamo tirato via le maglie perché questo sole va ringraziato per il regalo che ci sta facendo. Ci facciamo carezzare volentieri dal vento e carezze sono anche i rami bassi dei pini che ci vengono incontro sul petto mentre percorriamo il sentiero. Le dita affusolate dei cespugli di ginestra sono delicate sulle nostre spalle e piacevole è l’odore tutto intorno. L’occhio curioso, non più abituato alla nudità, è affascinato dal rosso dei leggeri graffi che le piante disegnano sulla carne inbiancata dall’inverno cittadino.
Sudati per la salita iniziale, abbiamo gioito e goduto in silenzio nel cambio di pendenza di quel tratturo poco battuto che senza parlarci abbiamo deciso di imboccare. Scendiamo verso il fondovalle, su pietre malferme, con il peso del corpo a monte e i piedi di traverso. Scendiamo come mille volte avevamo fatto da bambini, ognuno per conto suo, ricordandoci come si faceva e sorridendo di quella improvvisa necessità che ci sbatteva indietro negli anni e lontano nei chilometri. Io vado avanti e mi atteggio ad uomo. Tu un passo indietro, mai di più. Ogni tanto mi volto e mi meraviglio della tua presa sicura sul terreno e allora cerco le traiettorie più efficaci, non quelle più facili, come converrebbe, mentre tu mi stupisci ogni volta con un percorso diverso dal mio, più naturale, più creativo, più bello. Scendiamo di fianco e uguali all’acqua piovana che solca il terreno argilloso dopo le lunghe piogge dei giorni scorsi. L’acqua ti assomiglia. Tu sei più acqua di me, e si vede. Scendiamo allora leggeri e incuranti per congiungerci e mischiarci ad altra acqua. Scendiamo verso l’acqua per scambiare i racconti del tragitto percorso con altro liquido che viene chissà da dove, di là, oltre il monte.
Arrivati in basso, al rivolo che spezza in due l’aria della vallata, ti sei chinata e bagnata la fronte calda e i capelli neri. Ti sei messa a parlare con l’acqua, mi dicevo. Poi, d’un tratto, sotto il mio sguardo incredulo, ti sei versata nella corrente e sei andata via e a nulla è valso chiamarti e cercarti con gli occhi, acqua diversa nel fiume uguale. Sei acqua e io lo sapevo. Sei scivolata via verso il mare lontano e io con le scarpe incollate a terra, pesante, sono rimasto lì. Tu sei acqua e io lo sapevo. Avrei dovuto tenerti, quando potevo, in una vasca o tra le mani o in bocca e poi avrei dovuto berti, per tenerti, ma non avevo sete, avevo altro per la testa. Sto qui ancora qualche istante, sulla roccia levigata, a guardare il ruscello, nella speranza che ripassi quell’acqua che ti somiglia. Poi, ancora un po’, e vado via.