Ti penso a tratti. Ti penso come linee che non si uniscono, ti penso fatta di segmenti discontinui, disegnata leggera, sfumata ad acquerello, rosso ed ocra, come un fumetto di Gipi ti penso. Ti penso come una storia dai dialoghi surreali. La mia vita disegnata male. Ho in mente le tue costole, le tue costole bene in evidenza, il tuo seno piccolo, quando eravamo al mare. Quel culo che dondola e dondola fino alla spiaggia ho in mente, quel culo che poi si perde tra le onde, quel culo che sparisce tra le onde del mare. Io invidio le onde del mare, nel frattempo che ti asciughi. Poi, ti avvicini, resti un attimo, poi vai via, troppo presto, e io non so che dirti. Sorseggio una birra, e non so che dirti, mentre mi riempio della tua prossimità. Io no so che dirti ma nel frattempo mi riempio.
Ti trovo sempre meglio. Stai bene al mondo, stai bene al mondo come una canzone di Dente. Ci incontriamo, ci abbracciamo e bacetti. Io ti cerco, cerco quel vestitino scuro che ti scende sui fianchi come l’acqua dalla montagna. Indossi stivali ora, al posto dei sandali, con i tacchi, che ti fanno il culo alto, alto come quella montagna da cui scende a valle il ruscello e tu sali, sali sui talloni, per essere più alta, e il culo, quel culo che prima era bagnato dall’Adriatico ora svetta, si stringe, fluttua per la stanza, si poggia alle pareti, sfiora gli spigoli dei tavoli. Disdegni le sedie tu, troppo banali e io intanto invidio, invidio ogni superficie che tocchi e invidio il mare. E no so che dirti, comunque.
Al solito vai via, vai via troppo presto, ed io ti ho raccontato solo cazzate, come a tutte. Ti ho raccontato le stesse cazzate che racconto a tutte. Quelle parole vuote ti ho raccontato, quando a quel culo, a quel culo che dondola e dondola, a quel culo bagnato a est dall’Adriatico, a quel culo lì in alto, a quel culo sulle sorgenti del Gange io, pur di trattenerlo, pur di tenerlo tutta la notte, a quel culo lì, il Ramayana racconterei. A te però, a te proprio, non so che dire.