Quando ero piccolo erano gli anni ottanta e volevo lo scheitbòrd. Si sa che negli anni ottanta bastava volere una cosa che quella arrivava. Erano belli gli anni ottanta, gli anni della mia gioventù. Io volevo uno scheitbòrd, lo volevo proprio, negli anni ottanta. Un mio compagno di scuola, che ci aveva lo zio americano, gli ha portato dall’America un bello scheitbòrd, di quelli americani, di quelli belli. Che se ci hai lo zio americano le cose neanche le devi volere più di tanto, manco le devi desiderare, quelle arrivano da sole, dall’America. E’ il sogno americano, dicono. Il mio compagno di scuola voleva la bicicletta bmx, che negli anni ottanta, la bmx, era come lo scheitbòrd, un sogno, un sogno americano, più grande dello scheitbòrd però, molto più grande. Io, al contrario del mio amico, volevo lo scheitbòrd. Io, al contrario del mio amico, non ci avevo uno zio americano, ma neanche un prozio, un bisnonno, un lontano parente americano. Allora sognavo in piccolo, io. Lo scheitbòrd era il mio piccolo sogno americano.
Ho comprato lo scheitbòrd dal mio compagno, ché lui voleva la bmx. Ho comprato lo scheitbòrd per cinquemila lire. L’ho comprato per cinquemila lire italiane. Ho comprato il mio piccolo sogno americano per cinquemila sudatissime lire italiane. Era bello il mio scheitbòrd, bellissimo. Era blu elettrico. Era di plastica dura, con le ruote grosse e rosse che se ci penso ora rassomigliava alla bandiera americana. Io ci uscivo la domenica, col mio scheitbòrd. Ci andavo in piazza, su, al paese, per far vedere ai miei amici quanto bello fosse il mio scheitbòrd. Io ci salivo apposta in piazza, la domenica, ché abitavo in periferia, in fondo al crinale della bassa collina su cui è adagiato il mio paese. Ci andavo per poi tornare a casa, sul mio scheitbòrd, come sulle strade di San Francisco, in discesa, coi dossi.
Io tornavo verso casa. Ricordo ancora quella domenica, come se fosse ieri, anzi, come se fosse oggi. Ricordo ancora quella domenica, quando tornavo verso casa, col mio scheitbòrd, col mio sogno americano sotto i piedi. Ricordo una alfetta grigia metallizzata, con i cerchi in lega, una di quelle macchine tamarre, una di quelle macchine degli anni ottanta, tamarrissime, una di quelle macchine da sogno italiano, ché il sogno italiano è un sogno tamarro, si sa, mica come un sogno americano. Viene giù a tutta velocità l’alfetta ed io, spaventato dal rumore, sul mio scheitbòrd, mi getto sul bordo della strada. Sul bordo della strada, del brecciolino, del brecciolino tamarrissimo, si infila tra le ruote rosse e grosse del mio sogno americano ed io giù, ruzzolo via dal mio scheitbòrd. Il mio scheitbòrd è lì, solitario in mezzo la strada. Il tamarro sull’alfetta ci passa sopra con le ruote dell’alfetta, con le sue ruote tamarrissime da sogno italiano. Il tamarro sull’alfetta, quella domenica, con le sue ruote tamarrissime, con i cerchi in lega tamarrissimi, ha spezzato in due il mio bellissimo scheitbòrd, il mio scheitbòrd blu con le ruote rosse e grosse. Il tamarro sull’Alfetta ha spezzato in due il mio sogno americano con il suo tamarrissimo sogno italiano.
Fu in quell’istante, in quella domenica che ricordo come fosse oggi, che venne infranto il mio sogno americano. Fu quella domenica, col mio sogno americano a pezzi sull’asfalto, che decisi di non volere mai più un sogno americano. Ché i sogni americani fanno soffrire, mi dicevo. Fu in quella domenica, che ricordo come ieri, che decisi di diventare comunista. Decisi di diventare comunista per non avere mai più un sogno americano. Fu in quella domenica, che ricordo come ieri, che diventai comunista per sempre e mai più volli un sogno americano. Smisi anche di guardare Drive-in alla tv, quella domenica.
(foto originale)