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L’antica abbazia segna l’apice della collina. Tra questi boschi, tempo fa, San Francesco passeggiava e parlava ai lupi. Finora solo salita, un paesaggio mozzafiato, è vero, infatti il fiato è corto e i muscoli induriti. E’ da questa estate che non tiro fuori la mia baci. Conosco questo posto, l’ho già fatto questo sentiero, sotto un sole bollente, poca acqua con me, avevo la gola arsa, ricordo. Era metà luglio. Oggi è una tipica giornata autunnale invece. Fa freddo ma non troppo, il cielo è coperto ma non troppo, per fortuna non si sente odore di pioggia nell’aria, il vento è secco e pungente. Arrivato in cima ora so che si scollina.
Alla mia sinistra un cascinale. Pecore lanose puntellano di bianco il verde dei campi. Sono solo e decido che la natura, con il suo silenzio pieno, può lasciare un po’ di spazio al suono della musica del mio lettore mp3. Lo inforco e lascio andare a caso. Tiro su la zip della mia giacca troppo leggera, stringo le ginocchia sulla canna e prendo giù per il sentiero. Mi tira la volata PJ Harvey e la sua voce rugginosa. Pochi colpi di pedale e sono sulla ripida discesa.
Più vado avanti e più la strada si fa in pendenza, più aumenta la pendenza e più l’esile mezzo prende velocità, più aumenta la velocità e più mi stringo forte con le gambe per oppormi alle discontinuità del terreno. Pietre, terra e brecciolino e curve strette a destra e sinistra. Sono veloce e leggero, troppo leggero, dopo ogni svolta cieca ci potrebbe essere un sasso, anche uno piccolo, o un canale di scolo dell’acqua che viene giù dal costone sovrastante, un ramo, qualunque cosa, anche un bue muschiato volendo. Potrei cadere in qualunque istante ma a me non importa nulla, e mentre la velocità aumenta e le mani fanno fatica a tenere saldo e dritto il manubrio, spunta il sole. Un sole bellissimo e pulito, dritto in faccia, e sento le lacrime copiose che mi scivolo dagli occhi a causa del vento un po’ scaldarsi mentre vengono giù. Vedo solo il bagliore della spigolosa ardesia sparsa per la strada risplendere qua e la e nelle orecchie la più bella musica che avessi potuto immaginare per quel momento.
Era tutto così brutalmente casuale, improvviso, inaspettato. Tutto così bello che io non vi so dire, proprio non lo so spiegare, ma il mondo era tutto lì. Più scendevo veloce e più volevo andare veloce. Più andavo veloce e più mi sarei fatto male se fossi caduto, pensavo, ma a me non importava nulla. L’indomani sarei stato male, avrei avuto sicuramente la febbre, la schiena piegata, le gambe doloranti, pensavo. Non mi importava, mi importava solo di andare veloce e di scendere verso il fondo della valle, con quella musica, con quel sole e con quella felicità, la felicità di chi sa che in quel momento, proprio in quell’istante, nessun altro nel mondo, né a Parigi, né a New York o Tokyo o in chissà quale altro buco del culo del mondo stava provando quello che provavo io, quella felicità, quella personale felicità di chi non vorrebbe essere da nessun’altra parte a fare una cosa diversa da quella che stava facendo, in quell’istante. Pensavo che forse, neanche una donna che in quello stesso momento stava mettendo al mondo un figlio o un uomo, un uomo che le teneva stretta la mano, stessero provando quella stessa felicità che provavo io, in quel preciso istante. E così correvo, correvo e appena potevo pedalavo, pedalavo per andare più forte perché avevo timore che qualcuno mi raggiungesse e mi portasse via quella felicità e che per portarmela via dovevano prendermi e strapparmi il cuore, l’intestino e i polmoni e il fegato e quant’altro trovassero dentro di me ma io sarei arrivato comunque in fondo a quella discesa, vuoto come una bambola di plastica, con le ossa di cristallo e, una volta che le ruote si fossero fermate, con il sole ormai alle spalle, prendere un respiro e pensare: “cazzo, ora sì che potete ammazzarmi!”.