Bar dal 1896 recita l’insegna. Quel posto è lì da tanto tempo, da prima della corrente elettrica, prima delle strade asfaltate, prima della birra d’importazione.
Non ci sono tavolini fuori col bel tempo, né vecchi a far schioccare le carte del tressette, né bambini con il gelato in mano. La ristrutturazione di una decina di anni fa regala agli avventori un pavimento di ceramica bianco e il contrasto del nero-granito-variegato-all-amarena spezza l’aria elettrica del neon.
Un posto brutto, non c’è che dire. Ma i bar non devono essere belli, almeno non questo. Come non più belli e non più giovani sono Mario e Anna, i proprietari. Sembrano nomi da invenzione letteraria e invece no. Sembrano essere marito e moglie e invece no. Sono fratelli, continuatori dell’azienda di famiglia. Nessuno dei due è sposato e dal colore delle loro carni sembrano aver votato tutta la loro esistenza a quel posto. E così è, infatti. Mario e Anna hanno casa lì sopra, la batcaverna l’abbiamo soprannominata perché, per risparmiare sull’elettricità, l’illuminazione degli ambienti è affidata all’armadio-frigo del bar, sapientemente posizionato all’ingresso delle scale. Da quel buio anfratto, alcune sere d’inverno, scivola via verso il bancone un odore di minestra e di muscoril in fiale, unico toccasana per la sciatica di Mario, odore che mal si concilia con la grappa e con la cioccolata calda che preparano in maniera splendida, morbida e corposa, come se fossimo in un posto di montagna.
I clienti non sono molti e sempre gli stessi. Tutti bevitori di un certo spessore. Una scarsa predisposizione di Mario all’amarcord, soprattutto con la clientela di primo pelo, restringe la possibilità che il viavai si infoltisca. Una volta, si narra, che un forestiere, chissà perché queste cose capitano sempre ai forestieri, abbia chiesto una birra piccola in bottiglia. Mario torna dal frigo con una birra grande. Il cliente, cordialmente, sottolinea il probabile errore ma Mario fa finta di niente e apre la bottiglia, la posa sul banco e porge il bicchiere. Il cliente, un po’ titubante, sottolinea ancora di aver chiesto una birra piccola che lui pagherebbe anche per una grande ma proprio non gli va di berla intera e che si sprecherebbe. Mario, senza batter ciglio e senza dire una parola afferra la bottiglia, la svuota per metà nel lavandino e la rimette sul bancone, il tutto sotto gli occhi sbigottiti del foreste. Cose che accadono, se non conosci l’indole di Mario.
Da Mario non è neanche di gran moda chiedere un bicchiere d’acqua, non si sa quale possa essere la sua reazione. Non di giubilo sicuramente.
Giunta la tarda sera, d’estate, dopo le undici, la piccola piazzetta dirimpetto il bar diventa luogo di ritrovo. Di tutti quelli che durante il resto dell’anno sono fuori paese, a lavorare o a studiare al nord, e anche di quelli che sono lì tutto l’anno, che sono ormai pochi, e Mario e Anna sono contenti, anche se sanno che tireranno notte fino a tardi. Dopo poco inizia a montare l’invidia. Le birre più fresche sono per i clienti abituali. Inutile fare polemica.
In quest’humus culturale, in questo covo di fini pensatori alticci si annida la meglio intellighenzia del villaggio. Dopo la terza o quarta birra, il giro di amaro e quello di grappe, il martini con oliva perché rinfresca, si librano nell’aere conversazioni a tema politico che risuonano oltre un’acustica di ottanta decibel e che improvvisamente si flettono sotto l’umanamente udibile a causa della bocca impastata dall’alcol e dal tabacco. Le più gettonate: i consigli comunali in rosticceria, il festival delle gravine, la fogna e la ripavimentazione nel borgo antico. Gli animi si riscaldano, le offese volano, le opinioni confliggono, i cani abbaiano, le bottiglie poggiate sugli scalini cadono, le persiane dei vicini si aprono, qualcuno urla di andare a casa, qualcuno ci va, Mario e Anna accostano la saracinesca, le birre sono diventate via via più calde. E’ il segno definitivo.
Oltre la piazzetta una insegna recita Bar dal 1907. Quel posto è lì prima della Grande Guerra, prima della Coppa Rimet, prima della 500…