Pioveva quella notte. Veniva giù come lo spumante a capodanno, prima di traverso e a fiotti, per il forte vento di maestrale poi gli spruzzi, che si facevano sempre più consistenti e le gocce grandi, cadevano fino a terra, diritti come a riempire l’ultimo bicchiere.
Non mi piace pensare a te.
Ho sbagliato. Ho perso il treno di un altro pensiero e sto pensando a te e sicuramente il mio non è un buon pensare.
Chissà perché ogni volta che penso a te piove.
Chissà perché ogni volta che piove i treni sono in ritardo?
Anche oggi il colore del cielo non promette bene.
Vorrei che mi amassi.
Di un amore come si può amare un manichino nudo nella vetrina della tua boutique preferita, che quando ci ripasserai domani, di strada per andare a lavoro, troverai l’umanoide agghindato con quel vestito a tubino che starà una meraviglia con le tue scarpe nuove, quelle verdi.
Amami come quel manichino senza sesso.
Solo allora mi piacerai davvero.
Ti guardo sai, mentre fai finta di non vedermi.
Vorrei che nella tua mente io fossi “lo sconosciuto nella cabina del telefono”.
Pura estetica. Significante senza significato.
La pioggia ha ricominciato a cadere.
I vetri della cabina si appannano a causa del mio respiro.
L’auto di grossa cilindrata che fa manovra nel parcheggio mi abbaglia con i suoi fari. La luce si frange sulle gocce sparse sulle pareti opache come farebbe il laser su una palla stroboscopica di una discoteca riminese degli anni ’80. Sono stanco.
Nella mia testa ti accarezzo con freddezza e delicatezza come farebbe il pennello di un esperto calligrafo cinese sulla pergamena. Mentre lo faccio riesco a non pensare a te.
Le mie parole rimbalzano sulla cornetta e si spandono tutt’attorno.
Accendo una sigaretta.
Butto giù il fumo inspirando forte. Giù fino al buco del culo e poi su, fuori dal naso e dalla bocca, che si chiude e si spalanca pronunciando il tuo nome.
Anche quando dico sottovoce Anna non penso realmente a te.
Aspetterò qui finché non sorge il sole, che forse domani è il giorno buono per incontrarti.
Perché non rispondi a quel cazzo di telefono?
Sono le sette del mattino. Ha piovuto per tutta la notte ma ora c’è un timido sole.
Scrollo le spalle, la cabina che ho addosso è un po’ sgualcita ma ancora presentabile.
Tra poco passerai sul marciapiede di fronte per andare a lavoro. Io, il mio di lavoro, l’ho perso settimane fa per trasferirmi qui da te, per starti vicino, per proteggerti.
Solo alcune centinaia di passi ti separano dal treno che ti porterà in città, a Roma, lontano da me, dalla mia cabina, dal mio mondo, dal nostro mondo. Non so se potrò sopportarlo ancora per molto che tu vada via, ogni giorno.
Il portone si spalanca.
Come pensavo indossi le tue scarpe verdi nuove.
La giacca del tailleur bianco cinge morbidamente il tuo seno, la gonna stretta sotto le ginocchia rende i tuoi passi corti e forsennati. Sei in ritardo di alcuni minuti.
Le vetrine non ti interessano oggi.
La stazione del paese è piccola, di quelle che i tre binari, se nessuno ti guarda, li puoi attraversare senza usare il sottopassaggio. Il tuo treno è sull’ultimo.
Il capostazione guarda l’orologio e porta il fischietto alle labbra come quei vigili che ti stanno per fare la multa perché hai parcheggiato in doppia fila, con le quattro frecce accese.
Gli occhi bassi come un ladro, senza nemmeno guardarsi intorno per vedere se qualcuno sta accorrendo.
Ti sbracci ma lui non si accorge di te. Un po’ come fai tu con me.
Non salire su quel treno. Resta con me oggi, c’è il sole.
Il suono della campanella che annuncia l’imminente passaggio dell’eurostar Roma-Milano che sta per passare sul primo binario, ti impedisce di attraversare la passerella di legno.
Io voglio che tu sia felice, voglio aiutarti a salire sulla carrozza numero quattro.
Io ti amo e non penso a te mentre ti spingo sotto la motrice del treno che non fa fermate intermedie.
C’è il sole, un sole caldo ora, e i treni sono in perfetto orario.